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Siamo lieti di presentarvi il primo crossover tra narrazioni collettive… Il romanzo totale del 2008 è ben lungi da essere acqua passata e direttamente dall’ottimo esperimento Il Corpo di Carmilla arriva un incrocio degno dell’universo Marvel o di quello DC...
Doppia coppia all’irlandese (Andrea Cattaneo)
Londra, 24 luglio 1872: ore 23:30.
I vicoli di Whitechapel la notte non erano un luogo salubre: male illuminati e peggio frequentati odoravano di sudore, alcol, urina e vomito. Dopo il tramonto le viuzze nei pressi di Spitalfieds si riempivano di tagliagole, truffatori, imbonitori, prostitute, marinai e borghesi annoiati alla ricerca di un’emozione il più turpe possibile. Ma William Russell in quel quartiere cercava altro. Lì, in mezzo a tanta miseria umana, si concedeva una breve vacanza dall’esistenza anonima che l’avevano costretto a vivere.
Barcollando finì in una pozza di urina e si mise a sghignazzare: aveva bevuto ben oltre il limite e Russell in fatto di sbronze non era certo un principiante.
I colleghi giovani del Times – abituati agli agi dei salotti per bene di Londra e alle bustarelle del Governo – lo trattavano come un vecchio liberale pazzo che vaneggiava di guerre dimenticate. Le prostitute, che sapevano quanto fosse squattrinato, gli giravano al largo e lo stesso facevano i delinquenti che praticavano le tre carte. Da Russell non si poteva spillare un soldo.
Senza sapere bene perché imboccò Bell Lane sfilando accanto ai ricettatori che svendevano la refurtiva della giornata poi, arrivato a Wentworth Street, tagliò per un passaggio coperto e malfamato che portava a Goulston Street: sentiva il bisogno di raggiungere i docks e il Tamigi. In quel tunnel buio – traditi dal frusciare dei vestiti e dai gemiti – si intuiva la presenza di un gran numero di amanti. Russell, per scacciare quello che lui definiva il “grottesco risveglio del castrato”, si attaccò alla bottiglia. Ridotto com’era neppure il sesso a pagamento era un’opzione abbastanza rassicurante, infatti non vi ricorreva più da decenni.
Andò a sbattere contro qualcosa, un ostacolo basso e inamovibile. Allungò la mano e la posò sopra una testa accarezzando una chioma morbida e soffice. Forse una donna inginocchiata, forse un nano o forse un bambino: impossibile dirlo, era buio pesto. Biascicò delle scuse, poi si scansò e fece per proseguire ma andò nuovamente a sbattere contro lo stesso intralcio.
«Io vi conosco, voi siete famoso». Disse l’ostacolo che parlava con la voce di una bambina. «Vi prego, aiutatemi a uscire da qui». Da sobrio la cosa l’avrebbe insospettito ma, con tutto l’alcol che aveva in corpo, Russell si sentì lusingato per essere stato riconosciuto e non si fece troppe domande. «Sono William Russell, il famoso giornalista del Times, bimba. Ti porto fuori di qui, afferra la mia mano». La bambina obbedì stringendo il pollice destro del vecchio Russell con tanta forza da spappolarglielo. Ci mise un po’ William ad accorgersi del dolore, poi si mise a urlare. Ne seguì un gran coro di risate: così le prostitute e i loro clienti commentarono l’accaduto e la successiva richiesta d’aiuto di Russell.
Qualcosa lo colpì alla caviglia destra con tanta violenza da frantumarla, poi fu la volta della sinistra costringendolo in ginocchio. Russell, piangendo dal dolore, sgranò gli occhi nel tentativo vano di penetrare l’oscurità e vedere il volto del suo aggressore: riuscì solo a sentire il suo odore, un odore familiare.
«È inutile urlare, nessuno vi aiuterà. Ora che siamo faccia a faccia possiamo trattare da pari». Annunciò la bimba con naturalezza, come se stesse spiegando le regole di un gioco. «Il Governo vi ha condannato a morte per l’omicidio di Lord Halifax; hanno mandato me a eseguire la sentenza. Credevate si fossero dimenticati di voi?» Nonostante fosse passato tanto tempo Russell si ricordava perfettamente i fatti della Crimea, rammentava anche tutti gli uomini coinvolti nell’affare Halifax.
«I vostri complici, se la cosa vi può interessare, moriranno tutti questa notte. Ma, al contrario di loro, poiché siete un uomo fortunato, la morte per voi sarà solo un inizio. Servirete la Corona non per fedeltà, ma per fame: a partire da domani sarete a mia disposizione. Vi convocherò facendovi recapitare una carta da gioco – una regina di picche – e voi tornerete in questo tunnel per ricevere istruzioni. Questo è quanto, signor Russell. Ora vi prego, non piangete più: siate ragionevole». La bimba posò le sue manine gelide sulle guance di Russell, lo accarezzò per calmarlo poi affondò i dentini aguzzi nel suo collo.
Russell, squassato dal dolore, si meravigliò della forza celata in quelle piccole mani sufficiente a impedirgli di divincolarsi. Sentì esplodere in petto un freddo pungente, una morsa gli serrò il cuore e provò la sensazione di venire risucchiato in un gorgo buio. Infine venne lo strazio dolorosissimo per la sua vita che – benché fosse divenuta miserabile e fasulla – finiva così, senza possibilità di appello. D’ora in poi a lui avrebbe provveduto quel piccolo mostro e, in fin dei conti, era poi una cosa tanto terribile? «Ecco cos’era quell’odore familiare – sussurrò Russell –, era l’odore del sangue».
Tra Il Cairo e Alessandria d’Egitto, 24 luglio 1872: ore 1:30.
La duchessa Marina Seminova non aveva badato a spese: per quello spostamento da Il Cairo ad Alessandria d’Egitto aveva prenotato un intero vagone. Da quanto sua figlia Beria se ne era andata (probabilmente, sospettava lei, a fare l’amante di Lord Cardigan) la Duchessa non faceva altro che spendere il più possibile e coinvolgere Fëdor Michajlovic in ogni genere di avventura. L’aveva trascinato a Beijīng, a Shangai, in Mongolia, poi in lungo e in largo per tutta l’Asia.
Stufa dell’estremo oriente, si era poi rivolta all’Africa. Partendo dall’estremo meridione del continente nero, i due si erano spostati verso il Mediterraneo soffrendo ogni genere di malattia esotica e confrontandosi con una realtà per loro del tutto inimmaginabile. Fëdor era sempre più cupo e taciturno, Marina al contrario era eccitata da ogni nuova scoperta.
Arrivati al Cairo, Fëdor s’era dovuto fermare a letto per diversi giorni a causa della febbre alta. Marina invece sembrava inarrestabile; aveva approfittato dell’assenza del suo compagno per visitare i quartieri più malfamati della città, alla disperata ricerca di oppio e di divertimenti proibiti. Entrambi sfiniti, dopo un paio di settimane di permanenza, avevano deciso di visitare Alessandria d’Egitto.
Marina fantasticava di voler ricercare la sepoltura del fondatore della città, Fëdor sperava soltanto di convincerla a imbarcarsi per tornare a Odessa. Saliti sul treno lei non aveva fatto altro che parlare di Alessandro Magno, di quanto doveva essere bello e forte e ricco e via dicendo. Fëdor ascoltava tossendo con violenza: non si sentiva ancora del tutto guarito.
«Cosa hai mangiato Fëdor? Puzzi terribilmente di aglio». Disse Marina disgustata.
«Cara, non mi sento bene – si scusò Fëdor –, abbi pazienza».
«È rivoltante. Ma sono aperti i finestrini? Ho chiesto riservatezza, ma tutte queste tendine tirate mi sembrano un po’ eccessive».
«Ho capito, ora guardo». Si lamentò Fëdor avvicinandosi a un finestrino e scostando la tendina che lo copriva: era sigillato e così pure tutti gli altri. «Che scherzo è mai questo?»
«Chiama qualcuno – protestò Marina –, esigo delle spiegazioni».
Fëdor tirò una corda facendo fischiare la sirena del servizio treno: «Dannati selvaggi, ci voglio fare asfissiare».
Il capotreno si presentò poco dopo nella sua uniforme sgualcita: era un egiziano alto, dall’aspetto emaciato e dal colorito cadaverico. Li fissò con uno sguardo mobile e inquieto: «I signori desiderano?»
«Questo vagone è sigillato». Disse Marina indicando i finestrini. «Aprite subito o moriremo soffocati».
«Temo sia impossibile, cara Duchessa». Rispose il capotreno togliendosi il berretto e grattandosi il cranio calvo. «Se aprissi i finestrini voi non morireste soffocati».
«Cosa andate blaterando?» S’intromise Fëdor tentando di alzarsi. La sua vista era appannata e, toccandosi il petto, si accorse di avere la camicia madida di sangue.
«Mio dio, Fëdor, sei ferito?»
«Sono le piaghe, Duchessa – spiegò il capotreno –. Le stesse che ora sentirete pizzicare sulle vostre braccia e gambe, presto si apriranno e sanguineranno. In effetti, cari signori, voi due siete già morti».
«Come avete fatto?» Domandò Fëdor tentando di trattenere la nausea.
«Il fatto che vi interessiate alla causa della vostra stessa morte vi rende onore, signor Michajlovic». Osservò il capotreno. «Non mi hanno mentito quando mi hanno detto che eravate un intellettuale. Quest’odore d’aglio che sentite è l’odore dell’Iprite: un gas altamente tossico e letale. L’intero vagone ne è saturo e voi siete rimasti esposti troppo a lungo per sperare di sopravvivere. Prima verranno le piaghe, la cecità e via dicendo fino ad arrivare al completo collasso dell’apparato respiratorio. Ma non preoccupatevi, alle dosi che ho usato ci vorranno diverse ore».
«Così facendo, morirete anche voi». Osservò Marina.
«Si da il caso – rispose il capotreno sedendosi accanto a Michajlovic –, che l’Iprite su di me sia del tutto innocua. No, non meravigliatevi Duchessa. Vedete, ci è concesso morire una sola volta e a me è capitato diverso tempo fa».
«Siete un mostro!» Urlò Marina.
«Un vampiro, per la precisione». Ribatté ridacchiando il capotreno. «Però, dato che non sono crudele come pensate, ci tengo a chiarire una cosa: non vi uccido per mio interesse, per me assassinare voi o altri è la stessa cosa. Lo faccio perché siete stati entrambi condannati a morte».
«Da chi?» Domandò Fëdor con un filo di voce.
«Il Governo Britannico ha deciso di punire l’omicidio di Lord Halifax e ha incaricato il gruppo per cui lavoro di rintracciarvi ed eliminarvi tutti. Naturalmente sapete a chi mi riferisco, suppongo ricordiate bene quali sono stati i vostri complici». La Duchessa non riuscì a trattenere le lacrime: la sua morte era tollerabile, ma l’idea che Beria dovesse subire la stessa sorte era insopportabile. «Sono desolato, Duchessa. Le leggi degli uomini sono così crudeli, non è vero? Ora, dato che dovremo passare un po’ di tempo insieme, vorrei omaggiarvi con un piccolo presente che mi è stato chiesto di consegnarvi. Si tratta di una carta da gioco, un fante di quadri: sapete come sono i burocrati inglesi, amano le complicazioni. Fëdor, potreste cortesemente metterla nel taschino della giacca? Così dovrebbero ritrovarla facilmente assieme al vostro cadavere».
«Andate al diavolo». Rispose Fëdor.
«Che assurdità! Il vostro omonimo – quasi un doppelgänger si direbbe – Dostoevskij non si sarebbe abbassato a certi livelli…» Ribatté il capotreno svelando con un sorriso la dentatura tipica dei vampiri. «Bene signori, non so voi ma io ho una fame da lupi. Se non vi offendete mi servo da solo».
Calcutta, 24 luglio 1872: ore 5.
Il generale Cardigan, incurante della folla che si scansava strillando, esplose un altro colpo in direzione del suo inseguitore. Imprecando Lord Cardigan gettò vita la pistola scarica. Era certo di averlo centrato, eppure quel mostro continuava a braccarlo come se nulla fosse. Invecchiato e martoriato dalla podagra provocata dagli eccessi alimentari e dal troppo bere, Cardigan non era di sicuro una preda difficile da raggiungere. Il suo inseguitore, che al contrario di lui sembrava piuttosto veloce, stava solo giocando, lo voleva esasperare.
Gli indiani osservavano quella bizzarra scena con un misto di paura e stupore: un alto ufficiale britannico con addosso solo le braghe, braccato all’alba per le vie di Calcutta da un civile in abiti di lino eleganti e curati. L’inseguitore, che sorrideva divertito, si fermava con una mano il cappello in testa per non lasciarlo volare via nella corsa e con l’altra brandiva una sciabola arrugginita.
Cardigan non aveva avuto neppure il tempo di rivestirsi completamente: era nei suoi appartamenti nudo, disteso a letto con Beria al suo fianco. L’afa era insopportabile e di dormire ancora non se ne parlava, così si era alzato, si era infilato i calzoni ed era andato in bagno a radersi. Qui aveva trovato, fissata sullo specchio, una carta da gioco: un fante di cuori, una stranezza a cui non aveva dato importanza. «Beria – disse Cardigan –, non trovo più il rasoio. L’hai visto?» Dato che la donna non rispondeva, Cardigan – interpretando quel silenzio come un invito all’ennesima lotta sotto le lenzuola – era tornato in camera e il sorriso gli era sparito dalla faccia.
«In effetti, è l’ultima cosa che ha visto: ho usato quello per tagliarle la gola. Non vi dispiace, vero?» In un angolo della stanza un uomo vestito come un damerino sorrideva sornione e attendeva seduto su un canapè: in un tazza da tè aveva raccolto del sangue di Beria e lo sorseggiava amabilmente. «Dunque cosa aspettate – aveva chiesto il damerino indicando la pistola e la sciabola di Cardigan appoggiate su un tavolino vicino alla porta del bagno –, non mi attaccate con quelle?» Cardigan non se l’era fatto ripetere, aveva afferrato le sue armi e aveva sparato colpendolo in pieno petto. Il damerino era scoppiato a ridere e in quel momento il Generale comprese di non avere di fronte un essere umano.
Cardigan d’istinto si era gettato dalla finestra del bagno ruzzolando sul prato del giardino sottostante e rompendosi il naso. Correndo a rotta di collo in direzione dell’Hoogli, s’era infilato nelle stradine più oscure della città dove gli inglesi non mettevano piede per paura di finire accoltellati o peggio. Lui che era uno degli oppressori della gente di Calcutta, ora cercava proprio da loro rifugio e aiuto. Maledì se stesso per aver assecondato Beria (che non voleva rischiare di incrociare sua moglie Adeline) nella decisione di prenderle casa lontana dalle caserme dell’esercito.
Il damerino non aveva mai perso di vista Lord Cardigan: per un po’ si era divertito a vederlo arrancare tra i mendicanti di Calcutta poi, quando il vecchio generale si credeva in salvo, l’aveva raggiunto in un baleno e schiaffeggiato. Non l’aveva colpito con l’intenzione di fermarlo, voleva farlo disperare: solo così avrebbe ottenuto il duello all’ultimo sangue che cercava. «A Balaklava eravate tutti così lenti? Per questo vi hanno massacrato. E voi, come mai non siete morto quel giorno? Non vi vergognate ad essere diventato vecchio quando tutti quei giovani sono morti?»
Lord Cardigan si era infilato in una casa con le pareti di fango sfondando la fragile porta di legno col proprio peso. L’aveva attraversata ansimando sotto lo sguardo terrorizzato di una donna e dei suoi figli, poi era sbucato sul retro ed era corso via verso un mercato all’aperto. In lontananza si potevano intravedere le acque melmose dell’Hoogli e i fedeli intenti nelle abluzioni. Forse sul fiume avrebbe trovato una pattuglia, qualcuno a cui chiedere aiuto.
Ogni parte del suo corpo urlava di dolore, a tenerlo insieme non rimaneva altro che la forza di volontà. Ma arrivò al punto che, anche volendo, non avrebbe più potuto più correre: il suo corpo non obbediva più, la sua fuga finiva lì. Impugnò con entrambe le mani la sciabola e si fermò dov’era, in attesa del damerino. Un silenzio irreale calò sulla strada, nessuno dei presenti osava fiatare: la folla si aprì creando uno spazio vuoto adatto all’imminente massacro.
Il rumore stridulo di una lama che sfregava contro il selciato annunciò l’arrivo del suo inseguitore. «Finalmente facciamo sul serio».
«Cosa vuoi da me? Perché mi fai questo?»
«Perché è divertente – rispose beffardo il damerino – ho il compito di vendicare Halifax. Non l’avete dimenticato, vero?»
«Sono passati tanti anni».
«Che argomentazione stupida: per l’Impero Britannico gli anni durano istanti. Ora opponete queste idiozie alla morte, Lord Cardigan? Non usate più il ferro come una volta?» Il damerino sollevò la sciabola e gliela puntò contro. «Ho portato questa apposta per voi, un tempo anche io ero un militare, un ussaro per la precisione: quelli come noi di solito preferiscono andarsene tagliati o infilzati piuttosto che dissanguati. È uno strappo alla regola, un mio omaggio personale. Ma se non gradite posso fare diversamente. Allora, come preferite che finisca: in fretta o con onore?»
Cardigan si gettò contro il damerino: con un violento fendente da destra lo costrinse a sguarnire il fianco opposto. Ne approfittò per colpirlo con un robusto gancio al volto che gli fece volar via il cappello e lo fece rotolare a terra. In un istante gli fu addosso, gli afferrò il collo freddo come marmo con entrambe le mani e strinse più forte che poté. Il damerino strabuzzò gli occhi limpidi e cacciò fuori la lingua: cercava di allontanare Cardigan, ma neppure il diavolo l’avrebbe fatto desistere. Stringeva con tanta forza che si sarebbe aspettato di sentire il collo spezzarsi, ma non accade proprio nulla.
Il damerino scoppiò a ridere e smise di divincolarsi. «Bene, generale, ora il vostro onore è salvo. Adesso però lasciatemi fare il mio lavoro». Allungò la mano sinistra e impugnò la sciabola, con la destra afferrò i radi capelli del generale.
«Che cosa sei tu?»
«Ssst, non ci credereste mai…» Bisbigliò il damerino spiccandogli la testa dal resto del corpo.
Nel cuore della foresta di Sherwood, 25 luglio 1872: ore 5.
L’appuntamento era fissato ai piedi della Quercia Maggiore. Alla carrozza di Lord Raglan, che attendeva da diverse ore, si affiancò un’altra carrozza.
«Siete in ritardo Hesselius – protestò Lord Raglan –, io non ho tempo da perdere, sapete».
«Vi porto buone notizie, Raglan. L’operazione è terminata con successo: tutti i coinvolti nell’omicidio di Halifax sono stati eliminati ad eccezione di Russell. Lui ora obbedirà agli ordini della Corona».
«Eccellente – osservò Lord Raglan –, la prima operazione su scala internazionale dell’MI1 è stata un successo completo».
«Ne dubitavate?»
«Sì. Voi non siete un militare, affidare a voi un ufficio di intelligence coi compiti dell’MI1 e soprattutto affidarvi il comando di quei mostri è stato un azzardo. Inoltre voi siete irlandese e io non mi sono mai fidato degli irlandesi».
«Avrei preferito fare altro, Raglan. Ma la Corona ha disposto così: voi che, per volontà di Sua Maestà, vi fingete morto dal 1855 dovreste sapere bene che non si può disubbidire a certi ordini».
«Come avete fatto a guidare quelle creature? Sono mostri, non conoscono disciplina, agiscono per il solo piacere di uccidere».
«È bastato dare loro un bersaglio e lasciarli liberi di operare come meglio credevano. Noi forniamo loro tutto quello che chiedono e loro in cambio fanno ciò che sanno fare meglio: uccidono i nostri nemici. Piuttosto, per quella questione che mi riguarda…»
«Avrete tutto il cibo che vi serve per quella bestia, le galere sono piene di disgraziati che nessuno reclamerà: ho già disposto tutto, a Dublino saranno a vostra disposizione».
«Ottimo, ora che la Confraternita del Piacere Universale è stata estirpata non mi resta che darvi questa». Aggiunse Hesselius allungando una carta da gioco verso Lord Raglan.
«Una regina di quadri?» Domandò Raglan scocciato. «Che stupida trovata questa delle carte Hesselius, non ho capito a cosa dovrebbe servire?»
«Domattina troveranno la carta sul suo cadavere e chi di dovere saprà che l’MI1 ora è in completa attività. Il Governo Britannico vi ha protetto e nascosto fino ad oggi, ma non ama lasciare conti in sospeso, Raglan».
«Prego?»
«Flannait – disse Hesselius rivolgendosi all’autista seduto a cassetta sulla carrozza di Lord Raglan –, lascio tutto nelle tue mani. Esegui gli ordini della Corona, uccidi il traditore dei traditori».
«Come sei cerimonioso quando lavori, Martin». Rispose Flannait sfilandosi il berretto che era servito a nascondere la sua chioma rosso sangue. «Sii gentiluomo e augurami piuttosto buon appetito».
j @ luglio 23, 2010